Mompantero, val Susa.
UN ARTICOLO DI DOMENICO QUIRICO, La Stampa
Bussoleno (Torino)
Seghino non è il nome di un paese. Qua e là una casa di pietra, un’abitazione ammodernata a puntino, un rudere di una stalla, un frutteto, un sentiero, una staccionata, una siepe, un ruscello.
Venti abitanti, qualcun altro che viene per il fine settimana ad aprire la baita dei padri e dei nonni. Quando ci siamo arrivati pareva di esser soli in tutta la valle, tanto c’era silenzio. Ed erauno stupore, un fragile incanto.
Questo è Seghino, un tratto qualsiasi della montagna della Val di Susa, accovacciato sotto un’ala del Rocciamelone, un tratto di mondo con un orizzonte chiuso da altre montagne, la città con l’autostrada i negozi la gente il treno è a un passo, pochi minuti di discesa impervia eppure remota; tiepido anche d’inverno perché il sole lo svela dall’alba al tramonto, una montagna che la vicinanza dell’Alpe rende solenne, di una misteriosa solennità come accade ovunque la natura rivela ancora una sua nuda forma antica, simile a quella delle origini del mondo.
Lungo tutta la fascia delle montagna piemontese sono infiniti i luoghi che somigliano a questo. Montagna senza sci e senza alberghi. L’avvenimento è una corsa a piedi in salita che sfiancherebbe un camoscio, e le battaglie contro l’Alta Velocità che qui hanno segnato l’emblematico inizio: la prima trivella il 31 ottobre del 2005 e la prima battaglia, che non è ancora finita. Un mesto ancoraggio di vita, faticoso campo di lavoro, dove tra un muretto a secco e un burrone, tra un castagneto e un focolare, le generazioni si susseguono strette, povera terra fatta cara dal ricordo dei vecchi, dal ricordo del lavoro, dal ricordo delle annate buone e di quelle cattive.
«C’è gente che è scesa a valle per lavorare, sta dieci ore in fabbrica e poi risale qui. Ma non ha più forza e tempo per pulire il bosco, portar via le foglie e il secco ed ecco che gli incendi arrivano…».
Questa è Seghino che per la sua gente è una piccola patria, la piccola patria. Tre giorni fa dal monte è sceso l’incendio, arrivava da lontano il fuoco, da Bussoleno che in linea d’aria sono sette otto chilometri. Ha scalato gole, salito erte di pietra, ingoiato boschi. Ed è arrivato qui. Ieri la montagna fumava ancora come un’immensa caldaia, i Canadair e gli elicotteri facevano staffetta per lanciare acqua sui focolai che infiocchettavano quello che chiamano «il bosco nero» di fronte a Venaus e al cristiano miracolo di Novalesa. Basterebbe un soffio gagliardo di vento e… Eppure la gente, i 400 sfollati, su 600 abitanti, saliva di nuovo alle case con le borse e i fagotti con cui sabato era fuggita nella furia del fuoco che avanzava. E incontravi chi già spazzava la cenere e chi già veniva alla chiesetta di san Pietro, a un tornante che domina la valle, dove sono rimasti le bottiglie d’acqua vuote e i rifiuti lasciati da chi ha combattuto per ore contro le fiamme: per pulire e far tornare, almeno qui, tutto lustro. E al tornante di sotto trovavi i volontari che combattevano con una «ripresa del fuoco», che sembra imbattibile ed eterno.
«Forse voi che venite da fuori non potete capire: per noi Mompantero e Seghino non ci sono più. Certo, le case sono state salvate dalla lotta di tutti, vigili del fuoco Croce rossa volontari, ma il bosco e gli alberi sono morti e quello è anche il nostro paese, la nostra casa…».
Sono salito qui, ieri, per scoprire una piccola patria che si batte contro una modernità sentita come inutile, estranea, aggressiva e che si è trovata a lottare proprio con quella natura che vuole difendere ed amare, contro il fuoco e il vento. E ha vinto la battaglia salvando almeno uomini e case.
Non trovi gente infanatichita dal pericolo corso e dai danni, che strepita e accusa, neppure quelli che sono in prima fila nei cortei No Tav; ma parlano dell’incendio come di un avvenimento doloroso della loro famiglia, non per cercare la nostra pietà ma per espandere la loro. E anche dei piromani, di cui tutti sono certi, dicono senza odio, come di qualcosa che bisognerà accertare, primo o poi.
Centinaia di loro sono volontari del servizio antincendio: spesso sono arrivati da lontano, dove lavorano, alla notizia che la loro valle e il loro monte bruciavano. Hanno difeso le case, portato l’acqua con i trattori, i pick up, le auto, tagliando la vegetazione intorno, guidando i vigili del fuoco su per la montagna.
«È la solidarietà che qui nella valle è rinata nella lotta contro un’opera che consideriamo inutile e dannosa, una cosa antica ricostruita per fili sottili, nell’aiutarci l’un l’altro, nel fare da soli, scoppia un guaio grosso come un incendio e ci rimbocchiamo le maniche senza aspettare che qualcuno venga ad aiutarci…».
I volontari: stanno costruendo da soli, senza fondi, la loro sede a Bussoleno, in una vecchia scuola professionale andata in rovina, il Comune paga solo i materiali…
Quando entriamo nella valle è tutta piena di sole dentro al suo grande letto di verde. I monti, così ridenti alle falde, si fanno terribili di forme innalzandosi. La radio dell’auto trasmette le previsioni del tempo: l’annunciatore con giuliva insipienza dà per certi tempo bello, anticicloni ferrei, temperature in aumento. E qui contano i danni del «bel tempo». Perché Dio, ogni volta che si mette a perseguitare gli uomini, non conosce misura. Da giugno non è caduta acqua e il cielo resta terso, indifferente, sordo al muto appello della terra che ha sete. Le giornate si sono susseguite alle giornate senza che apparissero nuvole. Di notte le stelle corruscano senza ombre, crudelmente belle. La montagna, i boschi, si sono screpolati sotto il sole, sono avvizziti in strati pericolosi di foglie secche ed erba gialla. Aguzzi lo sguardo e vedi grandi macchie scure, come una lebbra nera che ha roso la pelle della montagna. Sono i boschi bruciati su su fino ai larghi prati del rifugio a duemila metri, ora neri come pece. Lì il fuoco si è fermato: perché non poteva mordere la pietra.
«Quindici anni fa ci fu un altro incendio, grande, il bosco cominciava a ricrescere, lentamente certo, con i roveri giovani… adesso di nuovo tutto è bruciato come se il tempo non fosse passato…».
E poi è stato il vento, anzi i venti. Perché oggi è lieve e fresco ed è una delle ragioni per cui l’incendio è stato domato. Ma domenica e sabato era furente, teneva a terra gli aerei e recava un alito caldo che investiva e circondava le cose solide, vive e le attaccava simile a un acido. Ha avvolto Seghino dentro sciarpe di fuoco e i pini in fiamme scivolavano e rimbalzavano con i massi roventi, staccati dal calore verso il basso, incendiavano in dieci cento luoghi diversi la montagna.
«Il fuoco sembrava ritirarsi e poi tornava, il vento soffiava verso l’alto e invece lo vedevano scendere in basso, verso il paese. Perché? Due volte ci ha circondato e ci è venuto addosso… Era una guerra… una guerra …».