Un ponte, una popolazione, un trauma comunitario, di M.T. Fenoglio


In “Quotidiano.net”, 20 agosto 2018

La vita a ridosso del Ponte Morandi non deve essere mai stata facile. La popolazione che da anni viveva sotto il ponte, sovrastata dai piloni che poteva quasi toccare dalle proprie finestre, ha attraversato negli anni diverse fasi di adattamento a una situazione cui nessuno oggi si sottoporrebbe spontaneamente. La collega Francesca Colletti, che vive sul posto, racconta che le case dei ferrovieri, quelle oggi così tanto fotografate, sono sorte prima del ponte, quando negli anni ’50 le Ferrovie vollero dare alloggio ai propri dipendenti, impiegati nello snodo proprio di fronte. Immaginiamo la soddisfazione di queste famiglie, che trovavano così casa e lavoro, in un’Italia che sembrava promettere un futuro di progresso. Gradatamente queste famiglie riscattarono gli alloggi, che divennero di proprietà, assumendo un ulteriore significato di radicamento e sicurezza.

Quando fu costruito il Ponte Morandi, così come in altri casi, non ci si curò affatto dell’impatto che quel mostro d’asfalto avrebbe avuto sulle persone che vivevano in prossimità. Le famiglie si rassegnarono, né d’altro canto avrebbero potuto con le loro sole forze opporsi al “progresso”, parola a cui si dava ancora un significato rassicurante e positivo. Lì c’era il loro lavoro, la loro vita. Le persone si sono perciò adattate, trovando la quadra tra disagi, timori e necessità di mantenere un senso di stabile continuità nella propria vita. In assenza di una alternativa alla loro portata, le persone hanno adottato la difesa della “negazione” e quella della “scissione”. In altre parole, il ponte non lo vedevano quasi più, come se si fosse fuso con il paesaggio. Nel 2006, recatami sul Polcevera per fare una breve rilevazione su come gli abitanti percepissero quel mostruoso edificio proprio sulle loro teste, alla domanda “che ne dice del ponte?” mi sono sentita rispondere, “quale ponte?”. Ricordo di aver guardato in alto, verso i piloni giganteschi, con senso di sgomento. Poiché la negazione è utile alla sopravvivenza psicologica immediata ma ha una copertura ridotta, fiorivano tra gli abitanti leggende metropolitane sulla possibile caduta del ponte e su un disastro prossimo venturo.

Ponte Morandi nel 2006

Foto di Gian Carlo Franceschetti

La paura si era annidata nelle pieghe della coscienza, pronta a manifestarsi sotto forma di storie di fantasmi. La comunità del Ponte Morandi, oggi sfollata, sta affrontando un percorso di adattamento ancora più difficile e delicato. Quando un disastro sconvolge un territorio, la prima domanda che la popolazione si pone più o meno direttamente è “come mi porto la mia storia dietro?”. In Abruzzo, gridando, una giovane mamma mi aveva con forza detto: “voglio indietro la mia vita!”.

La strada del nuovo adattamento che si impone a questa comunità certo non sarà facile. Per compierlo avranno bisogno di sostegno morale e materiale da loro stessi, le loro famiglie e dalla comunità sociale intera. Di un fattore nuovo tuttavia si dovrà tenere conto, in quanto esercita un ruolo cruciale. Lo Stato che negli anni ’60 ha imposto le proprie scelte era ancora uno Stato che riservava anche delle promesse. I cittadini sotto il ponte potevano sentirsi inclusi in un grande progetto di futuro che esaltava il potervi appartenere.

Oggi lo Stato è percepito non solo come fonte di gravi omissioni, ma come possibile fonte di pericolo. Il Ponte Morandi crollato è il segno che nessuna delega in bianco può essere data.

Questa consapevolezza ha effetti destabilizzanti non solo per i cittadini del Ponte Morandi ma per l’Italia intera. Il senso di insicurezza e le paure che ne conseguono non sono però una sorta di malattia che gli psicologi devono curare come se si trattasse di una psicosi. Sono invece la risposta sensata ad una situazione reale, vale a dire la debole protezione fornita dalle istituzioni. Se la rinnovata fiducia nello Stato è un processo politico auspicabile, ma non di immediata realizzazione, qualcosa di importante può essere fatto tuttavia subito. La paura, emozione fondamentale per la sopravvivenza umana, produce la necessaria spinta a voler conoscere che terreno abbiamo sotto i piedi, senza più il rifugio della delega e il ricorso alla negazione.

Cittadini informati, chiamati alla partecipazione sulle decisioni che li riguardano, sono la risposta psicologicamente sana che può condurli verso un adattamento di grado più evoluto. In questo processo possono dare un contributo importante anche gli psicologi.

 

Maria Teresa Fenoglio. Docente di Psicologia dell’Emergenza all’Università di Torino.

Presidente di Psicologi per i Popoli – Torino

 

Sorgente: Un ponte, una popolazione, un trauma comunitario – Cronaca – quotidiano.net