L’intervento psicosociale in Abruzzo


L’INTERVENTO PSICOSOCIALE NELLE CATASTROFI. IL CASO DELL’ABRUZZO

Ester Chicco∗ Maria Teresa Fenoglio∗ Alfredo Mela∗

L’intervento in Abruzzo della Associazione di volontariato di Protezione Civile Psicologi per i Popoli ha visto la discesa in campo di più di 300 psicologi provenienti da 14 regioni italiane. In particolare, la sezione della provincia di Torino (PXP Torino) ha impegnato, nell’arco di 6 mesi, 50 professionisti.

L’intervento psicosociale, infatti, costituisce dal 2006 una delle forme di aiuto previste dal sistema di Protezione Civile italiano, il quale si allinea a quanto avviene nei paesi europei ed è da tempo raccomandato dall’Unione Europea medesima. Il modello di aiuto adottato e raccomandato sia dall’Europa che dalle Nazioni Unite (vedi Inter-Agency Standing Committee1 ) fa riferimento a paradigmi psicosociali centrati sulla autonomizzazione delle vittime, il rispetto della loro decisionalità, il rafforzamento delle reti e del tessuto sociale, l’integrazione con tutte le forme di soccorso, il sostegno ai fattori presenti nella cultura locale che sono in grado di promuovere la resilienza degli individui e delle comunità. Secondo tali principi, l’intervento di Protezione Civile dovrebbe mirare fin dai primi momenti a coinvolgere la popolazione: informandola con regolarità; consultandola sui provvedimenti da adottare; condividendo le decisioni con la leadership locale; salvaguardando il tessuto sociale esistente e valorizzando le identità locali.

La crisi infatti può essere anche intesa come una opportunità per scoprire o riscoprire elementi importanti di ciò che rende una comunità quella che è ed è stata e per prefigurare eventuali miglioramenti. L’attuale sistema di Protezione Civile, tuttavia, centrato sull’urgenza e sulla copertura dei bisogni primari in fase acuta, non possiede al momento una visione professionale dell’aiuto alla persona nelle fasi susseguenti (“luna di miele” e “ricostruzione”), né la struttura per garantire l’accompagnamento delle popolazioni nelle difficili e lunghe fasi del post emergenza. La casualità e spesso l’incongruità della ricostruzione possono determinare spaccature anche permanenti della coesione sociale, favorite dalla distribuzione irrazionale degli aiuti, dalle dislocazioni in villaggi o case provvisorie distanti dalle comunità, dall’afflusso nello scenario di persone e organizzazioni non idonee, dall’influsso di dinamiche gruppali interne ed esterne alla comunità di qualità regressiva[1] se non distruttiva.

Se in molti casi la sensibilità dei singoli manager dell’emergenza, in carico dei Campi di accoglienza, è riuscita ad ovviare ad alcuni inconvenienti, quali l’ isolamento della popolazione nelle tende e la sua marginalizzazione, si è ancora lontani da un vero piano di autonomizzazione assunto come linea-guida. Gli effetti psicologici della “saturazione dei bisogni” prodotta dagli aiuti e di quella che si traduce in una sorta di occupazione del territorio, sono da tempo conosciuti: impotenza indotta; depressione; senso di perdita del proprio ruolo sociale; rabbia e ritiro sociale. Il clima di festa perpetua, portato dall’afflusso nella fase di post-emergenza di animatori, clown, soccorritori improvvisati può provocare, in particolare nei bambini, un senso di destabilizzazione dovuto al ritardo nella ripresa di un ritmo normale di vita. La marginalizzazione e l’alterazione degli equilibri prodotte dagli aiuti si sommano così al trauma recato dalla catastrofe, ostacolandone la rielaborazione e/o aggravandone le conseguenze. Esiste infatti una comprovata interdipendenza tra rispetto dei diritti umani e salute mentale, anche nel caso che la violazione dei diritti non si riferisca a casi eclatanti come le torture fisiche o la persecuzione razziale. L’esproprio del proprio territorio, l’impossibilità di accedere alle abitazioni, l’esclusione da decisioni che riguardano il futuro della propria comunità, l’immissione di modelli di ricostruzione alieni alla cultura locale costituiscono infatti vere e proprie violazioni dei diritti umani, e come tali foriere di conseguenze anche gravi sul piano psichico.

Il paradigma del volontario di Protezione Civile come “eroe” o “angelo” produce a sua volta conseguenze sulle condizioni psicologiche del soccorritore, il quale non sempre è pronto a tollerare i propri limiti e a lasciare con serenità lo scenario dell’emergenza. Non sono infrequenti casi di trasferimento in loco, con l’abbandono dei territori e della famiglia di origine, così come vere e proprie strumentalizzazioni della fiducia degli autoctoni attraverso l’introduzione di organizzazioni (o “sette”) molto discusse o inquisite. Si rende quindi necessaria una rivisitazione sistematica della natura e degli effetti degli aiuti in emergenza e in particolare il rafforzamento del sostegno psicosociale svolto da personale idoneo e opportunamente preparato, esteso alle diverse fasi dell’emergenza.

* Ester Chicco, psicoterapeuta e psicologa dell’emergenza, Presidente di Psicologi nel Mondo Torino.

* Maria Teresa Fenoglio, psicologa dell’emergenza, Presidente di Psicologi per i Popoli-Torino, già vicePresidente della Federazione Psicologi per i Popoli

* Alfredo Mela, professore Ordinario di Sociologia Urbana, Politecnico di Torino.

[1] 1 Nel sito, la definzione di IASC così recita: “The Inter-Agency Standing Committee (IASC) is the primary mechanism for inter-agency coordination of humanitarian assistance. It is a unique forum involving the key UN and non-UN humanitarian partners”, http://www.humanitarianinfo.org/iasc/. Nel sito è possibile visionare e scaricare il documento IASC Guidelines on Mental Health and Psychosocial Support in Emergency Settings.